È morto Giorgio Napolitano, l’ex presidente aveva 98 anni

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Il presidente emerito Giorgio Napolitano è morto oggi a Roma aveva 98 anni. L’ex capo dello Stato da tempo aveva problemi di salute, anche legati all’età. Nel 2018 era stato ricoverato all’ospedale San Camillo e sottoposto a un intervento chirurgico per la dissezione dell’aorta. Poi il lento recupero. Nel maggio dello scorso anno un nuovo ricovero, questa volta all’ospedale Spallanzani, per un’operazione all’addome. Lascia la moglie Clio Maria Bittoni e i due figli Giovanni e Giulio.

«Resto convinto che la politica racchiuda in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expediency (opportunismi, ndr)… ma non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura». Ecco come Giorgio Napolitano spiegava la propria fiducia nella politica, citando le parole che Thomas Mann aveva indirizzato dall’America ai tedeschi durante il nazismo. Ne faceva dunque un fatto di fede e ragione, fondate su una concezione alta e nobile di come andrebbe organizzata e amministrata la vita pubblica. Un sentimento che, nonostante certi giudizi di crudo realismo cui a volte si abbandonava, era rimasto lo stesso di quando aveva cominciato il suo percorso di dirigente di partito e uomo delle istituzioni. È stato il primo presidente della Repubblica rieletto per un secondo mandato, e in un modo clamoroso per di più: con un larghissimo arco di partiti che si alternarono «in processione» al Quirinale, per pregarlo di restare un altro po’. Una scelta eccezionale, per dare alla politica il tempo di riformarsi e all’Italia di ripartire. E lui, avvertendo il paradosso d’essere richiamato in servizio sulla soglia dei novant’anni e quando nel Paese già dilagava l’epos giovanilistico, accettò con un discorso d’investitura che fu un’aspra denuncia delle degenerazioni della politica.

Tutto si tiene, nella parabola da capo dello Stato di Napolitano. L’imprinting del Pci al fianco di Giorgio Amendola e il successivo passaggio alle sponde del socialismo europeo, sulla scia ideale di Altiero Spinelli. L’impegno al Parlamento di Bruxelles e nei governi di casa nostra. Il ruolo di presidente della Camera, senatore a vita e, infine, inquilino del Colle. È stato l’undicesimo presidente della nostra storia repubblicana. Con un bis nel 2013 nato fra gli applausi delle Camere riunite e chiuso, un paio d’anni più tardi, in un clima paradossale. Perché si ritrovò assediato da accuse di forzature, scostamenti costituzionali e addirittura intrighi: un bombardamento politico e mediatico che gli parve «pianificato ad arte» per delegittimare i suoi sforzi di evitare che il sistema entrasse in torsione. Già, perché di Giorgio Napolitano al Quirinale va ricordato come abbia dovuto confrontarsi con un’instabilità drammatizzata da una sequenza di scandali e dalle ricadute della crisi economica e finanziaria cominciata nel 2008.

Lo stesso anno in cui dovette sciogliere anticipatamente le Camere per la dissoluzione della maggioranza di centrosinistra, alla quale nel 2011 seguì il crollo del centrodestra. Con la contestuale nascita di un esecutivo tecnico, affidato a Mario Monti, per evitare che l’Italia restasse senza guida durante la tempesta valutaria che minacciava la moneta unica in Europa. Una traghettamento che aveva deciso, e il Parlamento avallato con un ampio sostegno, nella sua qualità di «reggitore della crisi», come diceva Carlo Esposito, padre del costituzionalismo liberale.

Perno della politica e — per alcuni — modello istituzionale borderline che avrebbe quasi sconfinato in un semipresidenzialismo di fatto, Napolitano aveva esordito da capo dello Stato con atteggiamenti che promettevano laconicità. Un esempio. Il 9 luglio 2006, ai mondiali di calcio che consacrarono il trionfo degli azzurri, a chi gli chiedeva con quali emozioni avesse seguito l’ultimo rigore allo stadio di Berlino, replicò: «In tribuna tutti saltavano e ballavano, impazziti di gioia. E io, dentro di me, quando l’Italia ha vinto, ho fatto un salto altissimo».

Il cenno al salto interiore — nulla di plateale, quindi — riassumeva lo stile che voleva darsi. Solo che quella riservatezza riguardava la sfera privata, di cui era assai geloso, mentre il suo modo di stare sulla scena pubblica era invece pedagogico e contemplava pertanto molte esternazioni. Parlava come un libro stampato (a braccio, sottolineando con la voce i passaggi cruciali, cadenzando con pause appropriate le virgole e i punti) per motivare in punto di diritto gli atti significativi che firmava, magari con qualche riserva, o che rifiutava di firmare, come accadde per il lacerante caso Englaro.

Eppure, nonostante l’intento didattico (a uso della gente comune) con il quale intendeva dare trasparenza alla propria missione e nonostante un certo suo interventismo sia comunque avvenuto «a Costituzione invariata», parecchie sue scelte furono equivocate ad arte. Per delegittimarlo, a costo di ripescare in certe radici lontane della sua storia politica e umana. «Cialtronesche montature, volte a diffamare», mi scrisse in una lettera di allora, con il suo solito lessico che scivolava nel rétro. «Vicende macchiate da manipolazioni della verità e autentiche barbarie… Andrebbero ristabiliti alcuni civili parametri di giudizio nei confronti dell’esercizio, da parte mia, del delicato e faticoso mandato supplementare ancora in corso di svolgimento».

Ma da «uomo che sa governare le passioni», come fu definito, riuscì ad archiviare in fretta anche le amarezze. L’arrivo in Senato nel 2015 è stato per lui il rientro nell’amata vita parlamentare. Al Quirinale tornava di rado, ma evitando i riti della nostalgia. Infatti, a dispetto dell’età ormai veneranda, le sue riflessioni erano rivolte al futuro. Quello dell’Europa, dov’era rispettato e percepito come un’autorità morale. E quello dell’Italia, dove stavano cambiando moltissime cose nel panorama politico. A partire dal boom dei 5 Stelle, che dapprima gli era parso uno scatto emotivo del Paese e senza un vero seguito («di boom rammento solo quello economico degli anni Sessanta», aveva sentenziato un po’ acido), ma che poi lo incuriosì. Non a caso gli ha dedicato una mezza apertura di credito, parallela ad una tagliente censura del Pd, durante l’ultimo discorso che ha tenuto a Palazzo Madama.

Fonte: Corriere della Sera


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