Giovanni Giannattasio è un Luogotenente dei Carabinieri in congedo dal 2010. Ha scritto un libro: “Ne è valsa la pena. Storia di un Carabiniere”. “H24″, così era soprannominato, quando era in servizio a Scandicci, in Toscana, per la sua totale dedizione al servizio. Giannattasio ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Maresciallo Giannattasio come inizia la sua “storia d’amore” con l’Arma dei Carabinieri? Da ragazzino primogenito di una famiglia numerosa, avevo voglia di studiare, ma la mia famiglia non poteva mantenermi agli studi. Facevo il chierichetto nella chiesa del mio paese guidata dai padri Redentoristi e man mano iniziò a nascere in me la vocazione di diventare uno di loro. Finite le elementari esternai ai miei genitori e al Padre Redentorista, verso il quale nutrivo un affetto più grande di quello che si può provare per un padre, il desiderio di entrare in seminario: in lacrime gli confessai che, a causa delle precarie condizioni economiche, la mia famiglia non poteva onorare la retta mensile, di lire 50.000 prevista dal seminario; udendo quelle parole, il sacerdote decise di aiutarmi e, rassicurando i miei genitori, si impegnò a pagare lui le rette, per consentirmi di seguire la mia vocazione. Dopo 3 anni, purtroppo dovetti lasciare il seminario e decisi di iscrivermi presso un Istituto professionale per diventare piastrellista. Iniziai a lavorare e riuscivo a portare dei soldi a casa, utili ad aiutare la mia famiglia per fronteggiare le esigenze dettate dalla quotidianità. Ricordo che, da giovane diciassettenne, la sera, mentre m’intrattenevo con gli amici nel bar del paese – vivevo in un paese, dell’agro nocerino, infestato dalle metastasi della camorra – vedevo sempre le pattuglie dei carabinieri sfrecciare e, in maniera irrazionale, iniziai ad innamorarmi della divisa. Incominciai, pertanto, a coltivare il sogno di diventare un carabiniere, infatti, al compimento del diciottesimo anno d’età, senza informare i miei genitori, mi presentai presso la Stazione dei Carabinieri del mio paese e presentai domanda per arruolarmi.
Cosa significa, per lei, essere carabiniere?
Essere carabiniere per me significava, e significa servire la gente: servire i cittadini e dedicarsi completamente alla loro sicurezza; solo in questo modo un carabiniere può riscuotere la loro fiducia. Ricordo che grazie alla costanza e dedizione con la quale adempivo i miei doveri di carabiniere molti cittadini, di Scandicci, mi chiamavano “Il maresciallo h24”
Rocco Chinnici, Gaetano Costa, Calogero Zucchetto, per citarne alcuni, isolati da vivi e celebrati da morti come leali servitori dello Stato. Questi uomini coraggiosi hanno servito uno Stato leale? Quanti ostacoli incontrano quelli che ricercano la verità, nell’illuminare le “lussuose” stanze contenenti, spesso, indicibili accordi di Stato?
A questa domanda posso semplicemente rispondere con un’espressione pronunciata da tutti quei servitori dello Stato che, in virtù delle loro indagini, arrivavano a scoperchiare pentole che non andavano toccate: “Siamo morti che camminano”. Ho conosciuto personalmente il Capitano Basile, uomo retto e ligio al dovere: caratteristiche che lo hanno reso scomodo. Questi uomini hanno servito uno Stato – mi riferisco a quei pezzi delle Istituzioni che operano fattivamente seguendo la stella polare della legalità – che purtroppo, in molti casi, ha consentito il loro isolamento: penso al Prefetto MORI, chiamato il Prefetto di Ferro, che fu mandato da Mussolini in Sicilia per stanare la criminalità, ma quando, probabilmente, stava iniziando ad indagare su eventuali collusioni tra mafia e istituzioni fu, immediatamente, richiamato a Roma per svolgere un “alto” incarico”.
Avrebbe potuto fare una carriera diversa, ma, ad un certo punto della sua vita, ha fatto una scelta diversa: quale?
Durante la mia carriera ho prestato servizio alla D.I.A., e ne sono orgoglioso in quanto è stato un periodo fondamentale per la mia crescita professionale, ma dopo tre anni decisi di ritornare ad indossare la divisa e quindi a svolgere il ruolo, per me più consono, di Maresciallo del paese, perché capii, sulla mia pelle, che la Mafia non è fuori, ma dentro i palazzi. Prestare servizio in determinate strutture implica, spesso, l’accettazione di compromessi con quelli che invece dovrebbero essere combattuti.
Ci faccia un esempio…
Le racconto un episodio di vita vissuta: un grande colonnello, ora Generale in pensione, mi raccontò che suo fratello, influente uomo politico, in nome di suoi “amici” gli chiese di trasferirmi, poiché prestavo servizio in una zona attenzionata dalla magistratura, per abusi edilizi. Il colonnello rifiutò la proposta, avanzata da suo fratello, invitandolo a denunciarmi e aggiungendo che solo nel caso in cui fossi stato rinviato a giudizio sarei stato trasferito. Questa è la mafia occulta contro la quale Falcone, Borsellino, Basile, Chinnici e Costa hanno combattuto: la mafia dei colletti bianchi, e non solo quella militare raccontata nelle fiction, sempre pronti a pagare tangenti; a soddisfare desideri dei potenti; a tutelare gli interessi delle lobby. Chi si contrappone a questi signori in giacca e cravatta viene prima isolato e poi ammazzato.
Maresciallo, l’Arma dei Carabinieri oggi, secondo lei, ha dimenticato la sua base?
Questa è una domanda molto delicata, alla quale rispondo traendo spunto dalla mia esperienza professionale. Ha ragione, i semplici Carabinieri, che vivono quotidianamente le criticità della strada, sono caduti nel cono dell’indifferenza perché sono puntualmente abbandonati da chi invece dovrebbe seguirli e mi riferisco, in particolare, ai loro Comandanti che in molti casi sono diventati dei freddi burocrati poco propensi a considerare i propri carabinieri uomini e non macchine da impiegare solo ed esclusivamente per le esigenze di servizio. Io, da comandante, difendevo i miei ragazzi, quando agivano in buona fede; ovviamente, ho sempre cercato di portare nelle fredde caserme, dove ho prestato servizio, il calore dell’umanità. In base alla mia esperienza sul campo sono fermamente convinto che l’Arma non possa essere rappresentata solo ed esclusivamente dal Generale, dal Colonnello o dal Capitano; l’Arma ha il dovere di dare voce anche a Marescialli, Brigadieri e Appuntati che, nonostante il freddo e la pioggia, presidiano i territori assicurando la sicurezza dei cittadini. Oggi, secondo il mio modesto parere, avere come amici politici influenti è una notevole risorsa per agevolare gli avanzamenti di carriera o per continuare ad occupare le poltrone aspirando, eventualmente, a ruoli sempre; non esistono tuttavia solo carrieristi all’interno dell’Arma, infatti, ricordo che, quando, alla fine degli anni ‘80, c’era malumore nell’Arma e il Governo chiese al defunto Generale dell’Esercito, Pietro Giannattasio, di diventare Comandante Generale costui rifiutò dicendo letteralmente: “Non voglio questa mina accesa tra le mie mani”
Nel corso dello scorso anno, secondo fonti statistiche, 59 Carabinieri si sono tolti la vita. Potrebbe aiutarci nell’individuare le cause di questa vera e propria carneficina?
La mia esperienza diretta mi permette di sostenere che, nella vita, nessuno impazzisce dalla sera alla mattina, ma qualcosa di preciso porta qualsiasi essere umano a fare questo insano gesto.
Ricordo un aneddoto: in una stazione che comandavo c’era un giovane carabiniere che poneva in essere comportamenti strani. Lo seguivo e studiavo ogni suo atteggiamento; raccoglievo anche informazioni tra i suoi colleghi ed un giorno uno di loro mi riferì che il ragazzo aveva manifestato la volontà di farla finita. Quel giovane carabiniere era uno dei migliori: diplomato, aitante e desideroso di diventare un carabiniere onesto e preparato. Non potendo contare sul mio Comandante di Compagnia, che era poco esperto in questioni d’umanità, decisi di confidare il problema direttamente all’Ufficiale responsabile dell’Infermeria che mi consigliò di togliere, al giovane carabiniere, l’arma d’ordinanza. Non avendo l’autorità e tantomeno una motivazione ufficiale, in sinergia con il responsabile dell’infermeria, consigliammo il giovane carabiniere a prendere 15 giorni di ferie. Dopo aver convinto il carabiniere a seguire il mio consiglio, ne parlai con il mio Comandante di Compagnia che appena appreso il fatto minacciò esemplari punizioni per averlo scavalcato. Senza alcun tipo di paura chiesi al mio superiore se la vita di un uomo fosse meno importante delle regole gerarchiche. Il Capitano non mi rispose e decise di assegnare quel giovane carabiniere al compito di suo autista personale per il tempo di tre mesi. Trascorso questo lasso temporale al giovane carabiniere fu chiesto se volesse mantenere quel ruolo o tornare a prestare servizio nella sua stazione. Il carabiniere espresse la sua volontà di tornare al suo vecchio lavoro e quindi al mio fianco. Si rivelò il miglior carabiniere che avevo e ancora oggi, quando mi incontra, pur se sono in congedo, mi abbraccia chiedendomi di tornare in servizio. I suicidi tra i carabinieri sono causati, in molti casi, dalle regole rigide – applicate con pochi – che caratterizzano l’Arma. Mi riferisco in particolare alle punizioni ingiuste; denunce, trasferimenti improvvisi che distruggono intere famiglie creando distanze. Lei si è mai chiesto come mai nessun Ufficiale si è mai suicidato?
Con la morte di Carlo Giuliani partì, a suo tempo, un vero e proprio processo mediatico contro le Forze dell’Ordine. Perché, secondo lei, i mass media, prima, e gli Italiani, poi, tendono ad isolare e a linciare Carabinieri e Poliziotti?
La morte di Carlo Giuliani e tutto quanto successo in seguito al Carabiniere Capranica, abbandonato da tutti, anche dall’Arma, che non lo ha riammesso in servizio, dimostrano il fallimento delle leggi in Italia. Abbiamo uno dei codici penali più completi al mondo, che regolamenta molteplici tipologie di reati, ma nonostante ciò il vero problema è insito, da un lato, nella timida applicazione delle norme e, dall’altro, nell’incertezza peculiare dell’attuazione del principio della certezza del diritto. È vero la popolazione tende ad isolare i membri delle Forze dell’Ordine. Questo atteggiamento di contrapposizione è fomentato, secondo il mio parere, anche dal lavoro svolto dai mezzi d’informazione: fotografare il ragazzo riverso al suolo è giusto, ma è doveroso anche immortalare lo stesso giovane mentre lancia molotov all’indirizzo di carabinieri e poliziotti. Siamo Italiani in divisa e, come tanti manifestanti che difendono le loro idee, difendiamo, nonostante gli stipendi e le tante criticità, la pubblica incolumità perché nessuna manifestazione può giustificare l’utilizzo della violenza. Quando si cerca, con la forza, di placare animi surriscaldati e nascono scontri, ci si concentra solo sul ragazzo ferito e non sul poliziotto che, magari, perde un occhio o una mano. Manca equilibrio e si preferisce la strada del facile giudizio.
Affermano che dietro un grande uomo ci sia sempre una grande donna. Quanto è importante per un Carabiniere, e più in generale per un uomo, che decide di schierarsi dalla parte della legge, avere al proprio fianco una compagna disposta a sacrificarsi e quindi ad affiancare, fino in fondo, il proprio uomo?
Quando conobbi mia moglie, da Allievo Sottufficiale alla Scuola di Velletri, e c’innamorammo, la informai sul tipo di vita che avrebbe vissuto al mio fianco: Notti insonni ad aspettare il mio rientro a casa; la consapevolezza che da un momento all’altro sarebbe potuta arrivare una brutta notizia, tuttavia i trasferimenti, causa servizio, in altre città non le hanno impedito di amarmi e quindi di rimanere al mio fianco. Avere vicino una donna che non conosce il verbo abbandonare, ma solo il verbo “Amare”, è il massimo aiuto psicologico che un uomo in divisa può ricevere. Ricordo che alla proiezione, in prima nazionale, del lungometraggio “H24 poliziotti allo specchio” l’avv. Giorgio Carta rivolgendosi a mia moglie le riconobbe la sua autentica stima per essermi rimasta affianco nonostante ben 13 trasferimenti – e le posso assicurare che non è facile per una donna cambiare casa, abitudini, amicizie – in diverse città. Oggi molti giovani carabinieri coniugati non hanno questa fortuna, ma preferisco non aggiungere altro.
Il lavoro curato dal regista Raffaele Manco: “ H24 poliziotti allo specchio” nasce per dare voce agli ultimi; a chi non ha voce. Ritiene abbia avuto la giusta risonanza?
Ho conosciuto il regista Raffaele Manco tre anni fa e mi propose di realizzare un film documentario sulle forze dell’ordine che perseguisse l’obiettivo di raccontare l’umanità che si nasconde dietro una divisa. Accettai di apportare il mio piccolo contributo alla realizzazione di questa idea. Il titolo “H24 Poliziotti allo Specchio” trae spunto dal soprannome datomi, quando prestavo servizio: “Maresciallo h24”. Il film rifugge la mera polemica e qualsiasi ideologia politica per dare spazio all’aspetto umano, emotivo di chi veste la divisa: non mostra gli scontri di piazza, ma si sofferma su ciò che succede prima di qualsiasi situazione violenta e cerca, senza strumentalizzazioni, di far emergere le responsabilità politiche che si celano dietro eventi eclatanti, si pensi al G8 di Genova. Il documentario di Manco pone l’accento sulla solitudine di tanti colleghi che svolgono attività sotto copertura o che hanno dovuto combattere il fenomeno inflazionato, all’interno dell’Arma, del mobbing. Spiace constatare che, nonostante molti addetti del settore abbiano riconosciuto un certo valore e qualità a questo prodotto, lo stesso non ha trovato risonanza in ambito cinematografico e televisivo. Forse alcune verità sono indicibili?
Lei oggi è un carabiniere in pensione e conseguentemente dovrebbe, come fanno molti Italiani, godersi i suoi figli e nipoti. Cosa la spinge a combattere ancora e a schierarsi dalla parte di chi è dimenticato dallo Stato?
Mi perdoni, ma un Carabiniere non va mai in pensione semmai in congedo. Il senso del dovere è nel mio DNA perché si è sempre carabiniere; tuttora, non mi tiro mai indietro, quando si tratta, ad esempio, di scrivere ricorsi a tanti uomini che non possono permettersi l’ausilio di un legale e mi accontento del semplice “grazie”. Mi anima la volontà d’essere utile per i deboli, non potrei vivere la vita del pensionato tranquillo, rischierei di ammalarmi. Non avrei mai potuto chiudere la mia storia d’amore, dopo il congedo, con la divisa perché, se così fosse stato avrei dimostrato a me stesso, e agli altri, di essermi arruolato solo per lo stipendio. Le racconto un aneddoto. Dopo un anno dal congedo fui contattato dal Comando Generale dell’Arma, in quanto c’era un Generale che, dopo aver saputo la mia intenzione di pubblicare un libro, voleva parlarmi ed io accettai. Quel Generale m’invitò a non infangare, con il lavoro letterario, il buon nome dell’Arma. Risposi a quell’invito, che celava qualche minaccia, affermando che la verità non distrugge semmai pone le premesse affinché siano superate criticità e si aprano le finestre al vento della ricostruzione.
Quale sogno o, meglio, speranza coltiva per il futuro?
Il mio futuro è già presente: Il sogno è quello di continuare a fornire un piccolo ausilio ai miei colleghi, per i quali, soprattutto per i più giovani, sono ancora un punto di riferimento. Sono felice che il mio libro “Ne è valsa la pena. Storia di un Carabiniere” sia letto da molte persone. Penso che quando mi presenterò davanti a Dio e mi sarà chiesto cosa ho fatto per gli altri potrò rispondere, con molta lealtà, di aver avuto, nel corso della mia vita, un debole: il debole per i deboli. Info – http://bit.ly/giovannigiannattasio
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