Qual è il valore che la società attribuisce alla vita dei singoli individui? Com’è possibile che tante persone siano dimenticate e muoiano sole? Queste sono le domande che Umberto Pasolini si è posto per scrivere e dirigere “Still life” il suo secondo lungometraggio che uscirà il 12 dicembre nelle sale. Un film che parla di fatti e persone reali, ispirato dalla lettura di un articolo, su un giornale, che riguardava uomini e donne il cui lavoro è quello di organizzare il funerale di persone che muoiono senza lasciare nessuno dietro di sé, riconoscendo nella loro professione qualcosa di profondo e al tempo stesso universale. Pasolini rimase colpito dal pensiero di tante tombe solitarie e funzioni funebri deserte un’immagine forte che fa pensare alla morte e al significato d’appartenenza ad una comunità. Egli ci fa ragionare sul fatto che la qualità di una società si può giudicare dal valore che questa assegna ai suoi membri più deboli, in altre parole i morti. Il modo in cui si trattano i defunti è dunque il riflesso del modo in cui la nostra società tratta i vivi. Nella società occidentale è molto facile dimenticare come si onorano i morti, poiché spesso non è dato il giusto riconoscimento alla vita passata di ciascun individuo. Pasolini ha quindi creato un film intrecciando tra loro tutti questi pensieri e idee, partendo della creazione del protagonista, un funzionario comunale addetto ad occuparsi dei funerali di persone morte in solitudine, John May, un uomo di mezza età meticoloso e coscienzioso che fa una vita solitaria e statica, il cui ultimo incarico prima di essere licenziato per esubero consiste nell’organizzare il funerale di un uomo morto da solo che vive in un appartamento dirimpetto al suo. Fermamente deciso a rendere il suo ultimo lavoro un successo, egli si mette in viaggio in tutto il paese alla ricerca dei parenti e degli amici del defunto. Nel corso del tragitto incontra la figlia abbandonata dell’uomo che gli prospetta la possibilità di un futuro d’amore e compagnia. “Still life”, ancora vita, proprio come allude il titolo, a cui, però si possono dare varie letture e un interpretazione personale. Le immagini che vediamo ci mostrano la quotidianità del protagonista e del suo mestiere svolto con grande quiete e staticità. Grazie alla recitazione di Eddie Marsan, emerge la complessità e la veridicità del personaggio, nella recitazione contenuta ma emotivamente molto forte rendendo il film d’impatto, attribuendogli un’immensa potenza. La solitudine di John May è intrinseca nel film, ma lui non ha la percezione del proprio isolamento non rendendosi conto che esiste un altro modo di vivere. La sua vita ci sembra vuota, ma in realtà lui si sente realizzato nel suo lavoro, ed è piena delle esistenze dimenticate a cui lui si dedica. Nel corso del film John, però inizia ad aprirsi a sperimentare nuovi piatti, a visitare posti, in segno di miglioramento, d’evoluzione, d’apertura di nuove possibilità. Questo lungometraggio Pasolini lo definisce a “volume basso”, con pochi dialoghi, ma essenziali, musica che non si sente immediatamente e anche i colori inizialmente poco definiti s’intensificano man mano con i cambiamenti e i progressi del protagonista. Un film non banale ma intelligente che ci lascia in qualche modo riflettere sulla nostra società.
Martina Perucca
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